HO IMPARATO A CAVALCARE IL DESTINO

Diciassette anni di differenza tra noi. 

Io non li avevo mai sentiti.

Intellettualmente gli tenevo testa e l’intelligenza e la cultura sono stati i valori fondanti verso cui volgere la nostra stima reciproca.

Non c’era passione.

Non ce n’è mai stata.

Bandita.

L’idea condivisa era che lui non potesse darne e che io, per esperienze pregresse, avessi già sofferto troppo.

Così abbiamo inconsapevolmente costruito una bolla di amore benevolo in cui non vi fosse rischio di ferite.

Vivevamo in un clima apparentemente sereno, senza conflitti, sostanzialmente buona l’intesa sul piano intellettuale e l’accordo sulle scelte di vita.

Il problema era che le scelte erano solo individuali e non esistevano scelte di coppia, né veniva contemplata l’idea che dovessero essercene. 

E’ andata così fin dall’inizio.

Entrambi ci sentivamo liberi, ma alla fine eravamo soli.

Una coppia priva di scheletro fin dalla base.

Entrambi abbiamo idealizzato all’estremo la sensazione che quella libertà che ognuno lasciava all’altro fosse amore, invece infine era noncuranza.

O almeno così si è rivelata per me, donna, quando ho sentito sarebbe stato bello generare un figlio.

A quel punto ho incontrato LUI, che non solo non ne desiderava, NON  DESIDERAVA NIENTE.

D’impatto, ho scoperto che aver tenuto il controllo apparente delle cose mi aveva fatto gioco per non accorgermi dei miei bisogni e della sua assoluta mancanza di reciprocità.

Non era colpa di nessuno.

Io sentivo di voler esplodere di vita, lui sentiva di averla conclusa.

Dopo anni in cui ho faticato a smitizzare il mio principe, in cui la sofferenza interiore diventava più potente e il desiderio di vivere sempre più forte, mi sono appiattita in una depressione evidente che mi aveva tolto ogni forza e sorriso.

Non adduco a lui la responsabilità del mio vissuto psichico, ma a lui attribuisco la grave responsabilità di non aver mai voluto capire né vedere la mia sofferenza, né come marito né come essere umano.

Un alexitimico…. ma l’avevo sposato… e la responsabilità era in parte anche mia.

Con l’aiuto della psicoterapia ho trovato la forza di andarmene, senza prendere niente, senza chiedere niente, sentendomi colpevole di tradire un patto in cui lui non aveva mai creduto, sentendomi colpevole di sentire sempre più forte dentro di me il rischio di innamorami ancora poiché, da deprivata, vibravo a ogni sguardo maschile mi desse attenzione.

Un profondo dolore.

Mi sono sentita abbandonata e l’ho lasciato senza che lui abbia mai palesato, né a parole né con i fatti, la responsabilità di avermi abbandonata.

L’ho lasciato per dignità, perché non potevo più accettare di non essere vista e non amata.

Ho ripulito ogni angolo della casa, che è sua di proprietà.

Dovevo andarmene io.

L’ho curata, abbellita.

Ho ricomposto la “salma”, come dico io, poiché ciò che muore merita la cura per l’amore con cui ti distacchi.

Ricordo di aver stirato tutte le sue cose, sebbene a lui non gliene fosse mai fregato niente.

Ho preso le cose che mi servivano per quella stagione.

Non sapevo se fosse una scelta definitiva.

Diciamo che ci stavo provando e intimamente speravo che lui facesse un minimo gesto per fermarmi, mi dicesse mezza parola che mi facesse desistere da quel passo.

Ma è stato parco di parole così come di gesti.

Ho avuto la fortuna di poter essere ospitata nella casa di una cugina che per me è come una sorella. Una piccola stanza, dove ho iniziato a elaborare il distacco che non avevo ancora compreso.

Avevo con me poche cose.

Ho atteso un anno prima di chiedere la separazione…

Lui ha dato un cenno dopo qualche mese pensando che sarebbe stato scontato tornassi a casa.

Da allora non sono più tornata indietro.

Profondamente offesa da quella scontatezza.

Mai più.

Ho pianto per anni ma non sono mai tornata su quella salma.

Ho lasciato che si decomponesse poiché la responsabilità di una degna sepoltura non era solo mia, e finalmente lo stavo imparando.

Dentro di me è cambiato… praticamente tutto!

Non sono più la stessa persona, la separazione è stata la conseguenza di un processo trasformativo già in atto e ineluttabile.

Non è stata la separazione a cambiarmi, è stato “scoprire di potermi separare dalla persona alla quale avevo dato più fiducia al mondo” che mi ha cambiato.

La separazione è stata per me un’esperienza interiore.

Essendo autonoma sul piano economico e avendo avuto la fortuna di poter essere ospitata per più di due anni in una stanza che ha accolto tutte le mie lacrime e i miei incubi, separarmi non è stato un problema pratico, ma un travaglio interiore.

Dopo anni, posso dire che il processo è ancora in atto.

Sicuramente perdere tutto, la casa, le mie cose, le mie certezze, i miei amici, le mie abitudini non mi ha aiutato, ho sofferto più di quanto mi sarei immaginata, ma ho riconsiderato il valore delle cose, delle persone.

In fondo potevo sopravvivere con molto… molto meno di quanto possedessi e ho scoperto chi mi era amico, e chi no.

Bambini per fortuna non ne avevo.

Gli amici hanno tentato di normalizzare, l’esaurita era io.

Mio marito non dava segni di vita, pertanto se strepitavo era chiaro che era a me che è partita la brocca.

Tendenza all’omeostasi.

Tutti si aspettavano un lieto fine, mentre io, la principessa impazzita, ero sempre più determinata a cavalcare il cavallo selvaggio del mio destino.

Senza un principe che avesse neanche proferito le sue preferenze, non aveva senso nemmeno fermarsi per riposare.

Dritta al galoppo, piena di lacrime e rabbia.

Gli amici si sono allontanati.

Per lo più si è capito di chi fossero amici, io credo della persona a cui è stato più comodo e facile stare vicino.

Qualcuno mi è stato affianco, qualcun altro ha tentato un riavvicinamento.

La famiglia di origine, tradizionalista, ha reagito male, soprattutto mio padre.

Hanno faticato a prendere una posizione, a proteggermi, poi infine, dopo qualche anno, hanno proteso verso la mia felicità senza più troppe remore.

Qualche dubbio, preoccupazione per il mio futuro, ma alla fine, mi sono stati vicini, pur con le loro difficoltà e ambivalenze.

C’è voluto un po’ di tempo.

Ho vissuto qualche anno da nomade, senza punti stabili.

Ora ho ottenuto il mutuo, e con i proventi del mio lavoro, che non è tanto ma mi consente di sopravvivere, ho acquistato il mio piccolo rifugio.

Quarantadue metri quadri in cui spero di trovare un po’ di pace.

Io e lui non comunichiamo più dal giorno in cui ci siamo incontrati in tribunale per firmare la separazione chiesta da me.

Qualche raro messaggio di auguri, qualche comunicazione attraverso qualche parente o amico, al limite un sms per comunicare che è arrivata della posta.

Non abbiamo nessun legame economico.

Non comunichiamo.

Non ci sono rapporti.

Di alcun tipo.

Ma credo che la “non comunicazione” fosse iniziata molto tempo prima di separarci, la situazione attuale è solo uno specchio del blocco emotivo che esiste tra noi.

Attraverso il nostro reciproco silenzio credo continui a perpetrarsi un conflitto silente e doloroso.

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UN CONSIGLIO…

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Guardarsi dentro.

Chiedersi cosa ci unisce e guardare che cosa spinge a separarsi.

Spesso le motivazioni si assomigliano sul piano inconscio.

Diffidare dei pretesti, delle scuse, delle mancanze sul piano della realtà.

I conflitti convergono su un oggetto reale, ma in realtà hanno sempre a che vedere con il nostro profondo modo di essere.

Sforzandomi di essere ironica con me stessa: se ho cercato la protezione maschile non avendone mai sentita nella mia vita ho sposato l’uomo sul quale ho potuto proiettare al meglio questo mio bisogno, in quanto totalmente neutro.

Poi, in quel paradiso, ho assaggiato la mela anch’io, e sono entrata nel mondo reale!

Domitilla

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