IL PIACERE DI MANGIARE: come creare un popolo di schiavi
Mangiare è un piacere irrinunciabile… giustificato dal bisogno di mantenersi in vita.
“Pensa ai bambini che muoiono di fame e finisci quello che hai nel piatto!”
“Mangia tutto, perché la roba da mangiare non si butta via!”
“Padre nostro che sei nei cieli, dacci oggi il nostro pane quotidiano…”
“Se continui a fare il cattivo, andrai a letto senza cena!”
La paura di restare senza cibo e morire di fame è una paura atavica che mamme, nonne e baby sitter utilizzano da sempre per convincere i bambini a mangiare.
L’atto di ingerire il cibo è la prima cosa che un neonato deve imparare.
I pediatri consultano le loro tabelle e insegnano ai genitori a pesare i bimbi prima e dopo ogni poppata per controllare che il latte sia sempre nella giusta quantità.
L’ossessione del cibo incomincia subito nella vita, prende forma dal desiderio di ottenere l’approvazione del medico e si snoda lungo il percorso di merendine, snack, rompi digiuno, biscottini e stuzzichini che accompagna la crescita dei nostri figli.
Premiazioni, feste, riconoscimenti, ricevimenti, battesimi e matrimoni… ogni evento raggiunge l’apice della celebrazione soltanto quando si mette in bocca qualcosa.
E più è importante più ricche e varie saranno le portate.
Mangiare e vivere appartengono a un binomio inscindibile.
Nella nostra cultura stare senza mangiare è considerato poco sano.
Il digiuno è guardato con sospetto e nei rarissimi casi in cui diventa necessario deve sempre esserci un medico, per evitare pericolose conseguenze sulla salute.
Viviamo nell’era della cultura alimentare.
Una cultura che ha fatto del mangiare un rito e, in nome del gusto, sacrifica la vita e la salute.
Propria, degli altri e del pianeta.
Il cibo ha sostituito l’intimità.
Attraversiamo l’esistenza indaffarati e nervosi, tutti presi ad assolvere nel minor tempo possibile gli innumerevoli impegni che costellano le giornate.
E ci concediamo un momento per stare insieme soltanto quando ingoiamo qualcosa.
Ci vediamo: a pranzo, a cena, per un aperitivo, per un the, per un caffè, per una tisana…
La varietà degli alimenti ha preso il posto dell’ascolto e della cura reciproca.
L’affetto oggi si misura col cibo.
“Cucino per te, dunque ti voglio bene”
“Cucini per me, quindi mi vuoi bene”
“Mangiamo insieme, allora ci vogliamo bene”
Raccontarsi, ascoltarsi, conoscersi, capirsi… sono momenti subordinati a una sbandierata e improrogabile necessità di nutrirsi.
Poi, quando ci ritroviamo insieme, parliamo del menù, di gusti, di preferenze, di sapori…
La condivisione delle ricette ha rimpiazzato la condivisione di sé.
La pancia ha occupato il posto del cuore.
Nella nostra società incontrarsi senza il pretesto del cibo, soltanto per il piacere di stare insieme, è diventato un tabù.
Parlare delle emozioni, rivelare insicurezze e paure è più imbarazzante che parlare di sesso.
Roba da psicoanalisti!
Una cultura alimentare smodata e compulsiva distoglie costantemente l’attenzione dai sentimenti per celebrare il sapore, contribuendo a sostenere l’indifferenza che sta distruggendo il mondo.
Per apprezzare i cibi, infatti, è indispensabile ignorare i modi in cui le pietanze arrivano nei piatti.
Feste e banchetti non devono essere macchiati dalla consapevolezza delle sofferenze inflitte a tante creature, dello sfruttamento dei paesi poveri, del danno ambientale ed ecologico che sottende la vendita dei prodotti alimentari.
Il cinismo è un ingrediente fondamentale per fare festa in compagnia.
Uccidere per il piacere di sentire un sapore buono in bocca, è considerato lecito, giusto e auspicabile.
Poco importa se causa la morte di altre creature viventi.
L’importante è che non se ne parli troppo.
Dietro il pretesto della sopravvivenza si nascondono le peggiori atrocità e si giustificano la violenza e la prepotenza degli esseri umani.
La coscienza lo sa.
La mente non se lo dice.
La digestione distoglie i pensieri e induce una gradevole sonnolenza, indispensabile per rilassarsi e non prendere in considerazione l’industria della morte che tiene in piedi i guadagni delle multinazionali.
Così, mentre ignoriamo volutamente le sofferenze degli animali e il degrado ambientale e fisico connesso alla nostra evoluta cultura del cibo, anestetizziamo anche la sensibilità, imbavagliando l’empatia fino a sorridere davanti alla violenza.
L’indifferenza e l’insensibilità sono indispensabili allo sfruttamento.
Lo sanno bene i colossi del commercio.
Per mantenere alti i loro guadagni usano armi psicologiche chiamate conformismo, bisogno di riconoscimento, dipendenza, solitudine, emarginazione, eccetera.
“Chi non mangia in compagnia è un ladro o una spia!” recita il proverbio.
E chi si discosta dalla cultura corrente per sposare uno stile alimentare più frugale e rispettoso della vita paga il prezzo della derisione, dell’emarginazione e della solitudine.
In questo modo le grandi aziende alimentari tengono in piedi il loro impero economico, costringendo anche i più sensibili a conformarsi al menù, per non subire il disprezzo sociale che accompagna le scelte diverse.
I cibi sono diventati: stimolanti, eccitanti, rilassanti, euforizzanti… ma soprattutto aggreganti.
Magari non sono tanto nutrienti, ma non importa!
L’essere umano è un animale da branco, non è fatto per vivere in solitudine.
E pur di sentire l’approvazione del gruppo può arrivare ad abiurare se stesso.
Per realizzare un popolo di schiavi serve una droga diffusa e potente nascosta dietro la necessità di non morire.
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