MORTE E IMMORTALITÀ

MORTE E IMMORTALITÀ

Morte e immortalità sono argomenti che spaventano.

Non se ne parla volentieri.

Riteniamo che la morte sia un evento che tutti, prima o poi, dobbiamo affrontare, ma viviamo cercando di non pensarci.

Come se non ci riguardasse davvero.

Riflettere sulla morte, di solito ci trova scissi in due differenti impostazioni di pensiero.

Da una parte ci sono i dogmi religiosi, che offrono un’interpretazione strutturata e immodificabile dove incasellare le nostre convinzioni.

Dall’altra c’è la scienza, che getta via tutto quello che non si può misurare e, non riuscendo ad avere risposte soddisfacenti, se ne disinteressa.

Il cuore e le emozioni, messi sotto pressione al pensiero del trapasso, faticano a trovare posto in questa rigida dicotomia.

Così, in una zona franca di se stesso, ognuno di noi coltiva le sue teorie personali e gestisce come può l’incoerenza che esiste tra religione, scienza e vita vissuta.

Istintivamente, però, ci spaventa l’idea che tutto finisca.

La paura di scomparire in un nulla assoluto ci attanaglia tutti.

Puf… più niente!

È un pensiero innaturale.

Vive dentro di noi un’idea di permanenza che affonda le sue radici e trova le sue conferme nell’esperienza della nascita.

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PERCHÈ RIFIUTIAMO L’IDEA CHE CON LA MORTE FINISCA TUTTO

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Abbiamo avuto tutti una prima esperienza di morte durante il parto.

La paura della morte è la paura della fine.

La fine di noi stessi e la fine di quelli che amiamo.

Nel corpo della mamma conosciamo per la prima volta la fine.

Sia la nostra fine sia la fine dell’essere amato che ci circonda (in seguito lo chiameremo “mamma”).

Durante la vita intrauterina la simbiosi fisiologica ci fa essere un tutt’uno con il corpo materno.

Ma poi arriva un momento in cui niente funziona più e improvvisamente… una parte di me spinge via un’altra parte di me.

La sputa fuori e tutto-ciò-che-sono finisce.

Ma non sparisco inghiottito dal nulla.

Tutto cambia.

MORTE E IMMORTALITÀ

Di colpo tutto-ciò-che-ero scompare, per diventare qualcosa di sconosciuto e molto diverso.

Devo respirare.

La pelle brucia.

Ho fame.

Devo mangiare.

Mi sento solo.

Un trauma.

La nascita.

Che ci portiamo appresso per tutta la vita.

Impariamo lì che dopo la fine si riparte.

Nell’ignoto.

E, benché niente sarà mai più uguale a quei nove mesi trascorsi nel grembo materno, qualcosa perdura e si fortifica anche dopo che la nostra prima morte ha fatto sparire tutto (cioè: tutto-ciò-che-sono-stato-fino-a-quel-momento).

Dopo la nascita di conosciuto e familiare ci resta solo il legame con la mamma. Che diventa più intenso, più chiaro e più forte.

Quel legame appartiene a un meccanismo fisiologico chiamato in gergo psicologico: preoccupazione materna primaria.

Si forma durante la gravidanza e prosegue per tutto il tempo di accudimento dei cuccioli.

La preoccupazione materna primaria è ciò che permette alla mamma di conoscere istintivamente i bisogni del suo bambino.

Di svegliarsi poco prima che pianga, di sapere quando ha fame, quando ha sonno o quando deve essere cambiato.

Grazie a questo legame succedono spesso fenomeni di telepatia tra madri e figli.

Mamma e bambino sanno, senza bisogno di parole.

A volte, questo succede anche quando si trovano a chilometri di distanza l’uno dall’altra.

La comunicazione senza parole esiste in tutti i legami profondi.

Sono stati fatti numerosi studi sul rapporto telepatico, sia tra madri e figli sia tra i gemelli (che hanno condiviso nove mesi nella stessa pancia).

Gli innamorati ne fanno esperienza comunemente.

Per esempio, quando si telefonano nel medesimo istante… trovando occupato!

Il legame affettivo è un ponte che unisce due persone, oltre i limiti dello spazio e del tempo.

Nella morte il corpo decade e ogni cosa percepibile con i cinque sensi scompare.

Ma il legame che ha unito due persone no.

Quello diventa più intenso, più chiaro e più forte.

Nel momento della morte, quando di materiale non rimane nulla, l’amplificarsi del legame è interpretato impropriamente (da chi resta) come espressione di nostalgia.

Mi manca. Non c’è più. Mi manca. Non c’è più. Mi manca. Non c’è più. Mi manca. Mi manca.

Non devo pensarci.

Invece l’attenzione al legame è ciò che ci permette di gestire la morte dei nostri cari con qualche strumento di comprensione in più.

Dopo la morte il legame si amplifica e, quando il corpo sparisce, l’attenzione si focalizza sull’unione.

Quando muore qualcuno con cui siamo stati legati dobbiamo imparare a sperimentare l’unione, senza vedere e toccare la persona amata.

Dobbiamo imparare a vedere e toccare l’unione.

Il dolore del lutto ci spinge in quella direzione spontaneamente.

È come un detonatore che fa esplodere la bomba interna del nostro legame.

Immateriale.

Ma reale.

Il legame che unisce due persone non è concreto.

Esiste fuori dalle coordinate di spazio e tempo.

Tuttavia è molto tangibile.Dopo la morte cresce, si fortifica e diventa grande.

Come un neonato.

Ha bisogno di silenzio, delicatezza, attenzione e cure.

Va seguito, alimentato e capito.

Il cuore lo sa.

La mente non lo afferra.

E io?

Devo imparare a tollerarlo e a farne esperienza.

Il cuore non è normale.

È vero.

Carla Sale Musio

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