Apr 30 2022
Archive for Aprile, 2022
Apr 23 2022
LA BAMBOLA
La sabbia era ancora densa dopo la pioggia.
A camminarci sopra, sembrava di schiacciare pietre piccole, che poi scivolavano di lato.
Aveva deciso di uscire quella mattina: il suo cane le camminava accanto, stupito dagli odori umidi e dai colori della primavera appena iniziata.
Poi, qualcosa di rosso tra le alghe.
*****
Erano partiti di notte, per sfuggire ai controlli.
La barca sembrava leggera, ma avevano deciso: forse oltre il mare c’era una vita diversa.
Per quel viaggio avevano speso i loro risparmi: lui, lei, una bambina di pochi anni e un altro figlio in arrivo.
Speravano che lui avrebbe conosciuto una vita migliore.
Insieme a loro molti altri, sconosciuti e spaventati.
La bambina aveva con sé poche cose in una borsa e, tra le braccia, teneva una bambola piccola, rossa nei capelli e nel vestito, il suo unico giocattolo.
“Non appesantite la barca”, avevano raccomandato a tutti loro.
E, infatti, lo spazio era ridotto, ricolmo di corpi, di borse alla rinfusa, di pochi viveri.
“Impiegheremo alcune ore ad arrivare”, li avevano rassicurati.
“Il tempo è buono”.
Ma, quando già si vedeva la costa, ecco soffiare un vento improvviso.
La barca oscilla, il terrore cresce, si accalcano tutti su un lato: l’acqua comincia ad entrare.
*****
Una luce vicina: è una nave straniera; si accosta, li accoglie.
Qualcuno prende in braccio la bambina, la mette in salvo sulla nave, ma a lei scivolano in mare la borsa e il giocattolo.
La bambina piange, si sporge in avanti: per fortuna la agguantano e la ricacciano al sicuro.
*****
Fino a quel momento, la bambola non era mai rimasta sola.
E il terrore la prende: un urlo piccolo, poi il gelo dell’acqua.
I capelli si intridono e anche il vestito.
Lentamente comincia ad andare verso il fondo, le braccia levate, come a chiedere aiuto.
*****
Quelle onde non avevano mai visto una bambola, per giunta così graziosa.
Gli dispiaceva davvero che morisse.
Sapevano bene che, senza il loro aiuto, sarebbe finita sul fondo, nascosta da alghe e sabbia.
Nessuno avrebbe saputo di lei, nessuno l’avrebbe cullata: e una bambola muore, quando nessuno le vuole più bene.
*****
Allora, mosse a compassione, le onde invocano il vento e lui le ascolta.
Sibila potente, le agita scuotendole.
La bambola che quasi si adagiava, ormai sconfitta dalla sorte, si sente trascinare verso l’alto, senza sapere dove.
*****
Le era finito un amore, quello che credeva il più importante, e si era ritirata nella sua casa vicina alla spiaggia.
Era appartenuta ai suoi genitori e lei ci tornava ogni tanto, quando aveva bisogno di riflettere o di vivere qualche tempo in solitudine.
In quei giorni aveva il cuore a brandelli; la consolava il suo cane, un randagio preso dalla strada: da allora, l’animale non mancava di ringraziarla.
Quella mattina aveva appena smesso di piovere, ma lei era uscita per una passeggiata: il cane la precedeva e girellava, riportandole il bastone che la donna gli aveva lanciato.
*****
Poi, lui si ferma e si ferma anche lei: c’è qualcosa di rosso sulla riva, tra la sabbia.
Il cane accorre, smuove le alghe con il muso.
Ed ecco che il rosso diventa un abitino di stoffa, dei capelli lunghi, una coroncina di fiori.
Il rosso è una bambola minuscola, le braccia alzate come a chiedere aiuto.
*****
La donna si china, si stupisce, la raccoglie.
E mentre la guarda, si ricorda di quando, da bambina, aveva perso la sua bambola preferita, dimenticata sulla spiaggia alla fine di una vacanza estiva.
Una distrazione breve la sua: poco dopo era tornata indietro a cercarla, ma la bambola non c’era più.
Piccola come quella appena trovata, aveva colori diversi.
Oppressa dalla colpa, la bambina aveva pianto per giorni.
Allora sua madre, per consolarla, le aveva spiegato che certo, qualcun’altra l’aveva trovata e ci avrebbe giocato ancora.
“Non essere triste”, le aveva detto.
“Una bambola muore, solo quando nessuno le vuole bene”.
*****
La donna si scuote dal ricordo: accarezza la bambola, le toglie le alghe dai capelli, le ripulisce il vestito.
“Torniamo a casa”, dice al cane.
“Abbiamo una bambola da confortare”.
Gloria Lai
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Scritto tutelato da Patamu.com, n°179291 del 20/4/2022
Apr 16 2022
SCHIAVISMO MODERNO
Si definisce schiavismo un sistema (economico e sociale) basato sulla schiavitù, cioè sul possesso e sullo sfruttamento dei popoli o degli individui.
Al giorno d’oggi guardiamo con orrore allo schiavismo, convinti si tratti di una pratica primitiva e ormai obsoleta.
Ignoriamo che lo schiavismo si è perfezionato, raggiungendo nel tempo forme sempre più adulterate.
Se in passato, infatti, la schiavitù era imposta con la forza, attualmente si conquista con la persuasione, lasciando credere ai moderni schiavi di poter scegliere.
La scelta in questione, tuttavia, riguarda sempre vantaggi effimeri se confrontati con la perdita della libertà.
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IN UN MONDO SANO OGNI INDIVIDUO DOVREBBE ESSERE IL PADRONE DI SE STESSO
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Nello schiavismo, invece, le persone diventano proprietà di qualcun altro che le gestisce imponendo la propria volontà.
Lo schiavista ha diritto di vita e di morte sugli schiavi.
E in passato questo era palese, mentre nel presente è la conseguenza di un’impossibilità a sopravvivere in mancanza dello schiavista.
Impossibilità che spinge gli schiavi a scegliere la schiavitù, rendendola invisibile.
Scegliere di rinunciare alle proprie aspirazioni per continuare a vivere, infatti, non rappresenta la libertà.
Soprattutto quando questa scelta appare l’unica possibile.
La convinzione di avere più possibilità occulta abilmente la schiavitù dietro l’apparente molteplicità di opzioni.
Tutte volte a proteggere gli interessi dello schiavista.
Così, paradossalmente, possiamo scegliere di dipendere da una multinazionale farmaceutica, da una catena di supermercati o da uno store on line.
Ma, qualunque sia la scelta, occorrerà rinunciare all’iniziativa personale per adeguarsi alle esigenze dell’organizzazione e ricevere in cambio la retribuzione.
Retribuzione con cui potremo acquistare i beni prodotti, incrementando ulteriormente i profitti dello schiavista.
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IL MITO DEL POSTO FISSO
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Il mito del posto fisso è la più grande forma di schiavismo mai esistita.
Dietro la necessità di lavorare alle dipendenze di qualcuno che garantisce la sopravvivenza (grazie allo stipendio) si nasconde una manipolazione della libertà individuale e una perdita (quasi) totale dell’autonomia personale.
Vendere al migliore offerente la propria energia e il proprio tempo in cambio del denaro significa (quasi sempre) rinunciare all’espressione e alla creatività che caratterizzano l’unicità di ciascuno, abbandonando la missione che siamo venuti a svolgere nel mondo.
In questo modo i soldi costituiscono l’unico obiettivo della scelta lavorativa, mentre la manifestazione dei talenti individuali perde completamente d’importanza.
Tutto ciò che non è funzionale allo sviluppo economico dei pochi che gestiscono i molti, infatti, è bollato con lo stigma dell’inutilità e perciò censurato.
Il lavoro si trasforma così in uno sterile approvvigionamento economico, ben lontano dal piacere interiore che spinge a realizzare la propria creatività nella relazione con gli altri.
Siamo cresciuti col mito del posto fisso: unica garanzia di una vecchiaia serena!
E abbiamo perso di vista che la serenità deriva dall’espressione della nostra unicità nella vita di tutti i giorni.
Fare quello che ci coinvolge e ci riesce bene permette di non stancarsi e di godere il benessere che deriva dall’esercizio dei propri talenti.
Senza aspettare le ferie, la pensione o la domenica per potersi (finalmente!) dedicare a se stessi.
Quando lavorare ci piace e ci appassiona, la soddisfazione prende il posto della fatica e il desiderio di far bene è inevitabile.
Al contrario, quando le mansioni lavorative riguardano la supremazia di qualcun altro, la noia e la frustrazione la fanno da padroni mentre la depressione spinge a trovare una compensazione nell’evasione (da sé e dalla vita).
Il mito del posto fisso rivela con chiarezza l’evoluzione moderna dello schiavismo.
E racconta l’inganno, ottenuto grazie alla manipolazione culturale e al ricatto economico, con cui ci siamo diventati proprietà di chi paga il nostro (tanto desiderato) stipendio.
Stipendio ben lontano dal guadagno che consegue alla libera espressione di sé.
Stipendio che incatena sempre di più al mondo dei consumi.
Stipendio che imprigiona e sancisce la schiavitù.
Carla Sale Musio
Leggi anche:
PROSTITUZIONE LAVORATIVA E NEGAZIONE DI SÉ
Apr 09 2022
IL PERDONO ATTIVO
Per chi ha vissuto un’infanzia particolarmente sofferta con dei genitori che hanno commesso importanti errori o mancanze, i sentimenti di rabbia e il senso di ingiustizia permangono in maniera molto forte anche durante l’età adulta, creando spesso una barriera di sentimenti negativi che influenzano il vissuto quotidiano.
Parlare di perdono spesso suscita emozioni contrastanti poiché la persona sente che la sua sofferenza viene in qualche modo screditata o sminuita e ciò amplifica la rabbia e la distanza emotiva nei confronti degli altri.
Insomma, la sofferenza del passato genera una voragine dalla quale pare non ci sia via d’uscita: da un lato il forte desiderio di placarla e dall’altro lato la paura che essa cada nel dimenticatoio senza la possibilità di un riscatto.
Come si può, pertanto, arrivare ad un sentimento di perdono senza rimanere impigliati nella rete di questo meccanismo?
A tal proposito mi piace utilizzare il concetto di perdono attivo.
Per capire in cosa consiste partiamo dal suo opposto: il perdono passivo.
Il perdono passivo è quel tipo di perdono di cui comunemente si dice: “Devi perdonare.”; è una sorta di imposizione, di dovere, ha una connotazione razionale, con anche delle buone logiche, ma totalmente disconnesso dall’emotività.
Il perdono passivo lo si evince da frasi come “Ormai è successo.”, “Non puoi farci più nulla.”, “Continuare a rivangare il passato ti fa solo del male.”
Quel che viene chiesto alla persona è di dimenticare, andare avanti…
Sono tutti presupposti eccellenti se funzionassimo solo razionalmente.
Ma dove va a finire tutta l’emotività associata al vissuto?
Il concetto di perdono attivo invece considera sia il livello razionale che il livello emotivo.
Partiamo dal presupposto che la persona non può certamente dimenticare né affievolire i sentimenti di rabbia e dispiacere, quel che occorre fare è accoglierli per poi trasformarli.
“Chi sono diventato dopo la mia esperienza?”, “Quali parti hanno avuto la possibilità di esprimersi e rivelarsi, aiutandomi a crescere?”, “Quali parti ho dovuto proteggere che ora posso iniziare ad accogliere grazie a ciò che sono diventato?”
Aiutare la persona verso una posizione attiva e riconoscente della sua esperienza, in un’ottica dinamica ed evoluta piuttosto che cristallizzata, consente alla persona stessa di cogliere il senso profondo del suo vissuto e di andare oltre i sentimenti di rabbia.
Un giorno un paziente mi disse: “Se non avessi avuto i genitori che ho avuto probabilmente non avrei mai sviluppato questo senso di empatia. Avere avuto il loro esempio mi è servito a capire cosa non sarei mai voluto essere e da lì ho trovato la mia strada. È grazie a loro se oggi sono un genitore presente e costante, proprio grazie alla loro assenza e alla loro incostanza.”
Martina Mastinu
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Apr 01 2022